Un interessante database arricchito da modelli bio-economici di oltre 4.500 attività di pesca sparse in tutto il mondo è stato la base di studio per una ricerca pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS).
Attraverso la lettura dei dati raccolti i ricercatori hanno tentato di trovare una soluzione al problema globale della pesca eccessiva. Una pratica parecchio diffusa che arreca danni ingenti agli ecosistemi marini e un impoverimento delle risorse ittiche. Dall’interpretazione delle informazioni raccolte, emerge una situazione piuttosto triste: dai dati ottenuti, che rappresentano il 78% del pesce pescato a livello globale, nel 32% dei casi le attività di pesca dal punto di vista biologico hanno un profilo positivo ma lo stesso non si può dire dal punto di vista economico. L’overfishing poi ha messo a dura prova le altre attività. Una pratica troppo diffusa cui bisogna porre fine perché a rimetterci sono le attività di pesca nella perdita dei profitti ma anche gli stock ittici che vanno sempre più impoverendosi.
Lo studio propone tre diverse proposte utili a migliorare lo stato della pesca: la prima basata sull’approccio esistente, la seconda incentrata sulla massimizzazione del risultato nel lungo termine, la terza che concerne la gestione della pesca fondata sul diritto all’accesso.
Secondo gli studiosi quest’ultima proposta basata su diritti di accesso individuali o comunitari alle risorse della pesca, alla lunga può allineare i benefici in termini di profitti, sussistenza e conservazione. Tuttavia, a parere dei ricercatori, solo riformando il sistema attuale si può pensare di ottenere entro i prossimi dieci anni, i primi risultati.
Se poi si abbandona definitivamente il modello attuale si può sperare di avere entro la metà del secolo, la stragrande maggioranza (98%) delle scorte biologicamente sana e in una condizione tale da fornire cibo e mezzi di sussistenza su cui fare affidamento.